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Il gioco di Alan: The Imitation Game.

10649880_707825055973192_8122767173647536971_n - ItaAvevo intenzione di parlare del film nel post precedente, ma dato che mi sono dilungata un po’ troppo su Alan, ho pensato di dedicare a The Imitation Game un post tutto suo, per dividere la storia dalla rappresentazione cinematografica (e per non annoiarvi con post chilometrici).

Ieri come da copione, mi sono letteralmente fiondata a vedere questo film: se un anno fa ero curiosa di vederlo perché amo sopra ogni dire Benedict Cumberbatch ed ero incuriosita dalla trama del film, a distanza di un anno, dopo aver sentito/letto innumerevoli interviste e articoli riguardanti Alan Turing, dopo aver approfondito la mia conoscenza su di lui leggendo la corposa biografia scritta da Hodges, sono andata al cinema con sentimenti complessi e innumerevoli motivi per vedere quest’opera cinematografica.

Due sono i motivi principali. Alan mi è entrato nel cuore, non riesco a pensare a lui, alla sua vita da incompreso e alla sua tragica fine, senza commuovermi e arrabbiarmi e Benedict è un motivo più che valido per andare al cinema. Altrettanto importante è il fatto che i governi ci nascondono talmente tante informazioni, che quando emerge qualcosa di nuovo dal punto di vista storico è un dovere di noi tutti informarci e conoscere il film di Tyldum apre la finestra su una parte di storia ampiamente tenuta segreta. E su un uomo che meritava tutt’altro che il silenzio totale.

La notte di capodanno ho terminato la lettura della biografia, in perfetta tempistica con l’uscita del film, prevista per il giorno dopo. C’è quindi da premettere che ero così piena di dati su Alan, che avrei voluto vederli tutti nel film. Ma ovviamente questo non è possibile, come in ogni caso di trasposizione cinematografica di un libro, figuriamoci poi uno di 664 pagine. Inoltre il film si concentra quasi esclusivamente sugli anni trascorsi a Bletchley, senza dilungarsi troppo sui progressi scientifici fatti da Alan nel dopoguerra.

Ma veniamo al sodo: la trama.

La storia inizia nel “futuro”, con la polizia che indaga sul furto avvenuto in casa di Alan, per poi tornare indietro nel passato quando il matematico incontra la macchina Enigma. Gli anni trascorsi a Bletchley, l’importanza del compito di decrittaggio del team del Capanno 8, l’ansia di riuscire a decifrare il Codice Enigma prima che avvenga una strage di uomini immane, permeano tutto il corso del film, così come i giochi di potere all’interno del governo britannico, diviso tra Ammiragliato e Servizi Segreti. Insomma lo sfondo storico c’è ed è ben messo in evidenza.

Per quanto riguarda i personaggi che si muovono all’interno della storia, ovviamente c’è qualche cosa da dire: il gruppo di cui Alan era parte era molto numeroso e ha subito variazioni nel corso degli anni, ma ovviamente, per semplificare le cose ed evitare casting inutili, il team è stato ridotto a sei persone. 8_bE fin qui non ho molto in contrario. Ma non mi è piaciuto il modo in cui queste sei persone sono state gestite: Jack Good era un collega con cui Alan aveva instaurato un buon legame, e insieme avevano anche ipotizzato una macchina che giocasse a scacchi, invece nel film il suo personaggio è appena accennato e del rapporto con Alan non c’è minima traccia. Così come Peter Hilton, il più giovane e anche uno degli ultimi ad essere stato reclutato, che vedeva in Alan una figura professionale da cui apprendere, qualcuno che ammirava, mentre nel film finisce col rivolgergli del rancore per motivi personali (del tutto giustificati, ma che sono stati inventati per far capire il modo in cui le informazioni di Enigma venivano gestite). John Cairncross non aveva motivo di essere nel team; la sua figura riveste un ruolo che si spiega solo a metà film e che anche in questo caso, è un escamotage per mettere insieme un altro aspetto dell’atmosfera che si respirava a Bletchley. E vabbè, questo lo capisco. Però per esigenze di copione si è creato un rapporto quasi amichevole con un personaggio “inesistente” mentre con chi doveva esserci un tale legame non è accaduto. Gne 😦

Per quanto riguarda Hugh Alexander, sicuramente è stato enfatizzato il rapporto contrastante tra lui e Alan, ma questo è solo il particolare che riflette il generale andamento della situazione nel Capanno 8, che affronterò dopo.

Ed ora veniamo a Joan. Direi che fra tutte le modifiche, quelle inerenti a lei sono state le più grandi: a partire dal reclutamento, fino alla sua presenza in anni in cui lei e Alan avevano perso le tracce l’uno dell’altra e viceversa. Cinematograficamente parlando era ovvio che le venisse dato un ruolo più importante, al punto da diventare il braccio destro di Alan e forse la sua migliore amica. Ma credo che per quanto il loro legame sia stato importante, nel film sia stato enfatizzato un po’ troppo sia per non dover (anche qui) utilizzare altre comparse, sia per dare un’importanza maggiore all’unico personaggio femminile del film.

Last but not Least: Alan.

“I’m just a mathematician.”

Inutile, inutilissimo dire che Benedict è favoloso, che il suo modo di interpretare Alan è splendido, che la sua immedesimazione in lui si respira negli sguardi, nel modo in cui si sistema i capelli, nel modo in cui parla, cammina, nell’atteggiamento ricurvo su se stesso, la camminata nervosa e il balbettio. E la fragilità, l’arroganza, il goffo tentativo di essere amichevole… senza contare il momento in cui la sua interpretazione spezza letteralmente il cuore nelle scene finali. Il suo essere Alan è perfetto, e non avevo dubbi in proposito.

Alex Lawther è stato altrettanto eccezionale nell’interpretare Alan da giovane: anche lui ha saputo rendere il suo passo goffo e gobbo, il balbettio, la timidezza e l’amore inespresso per Christopher che riluceva nello sguardo; senza parlare del momento più drammatico in cui è stato davvero bravissimo nel rendere i sentimenti di Alan senza dire una sola parola.

Ciò che mi ha lasciato perplessa però è stata la decisione dello sceneggiatore di enfatizzare l’arroganza di Alan a discapito dei lati più amabili del suo carattere, come la sua autoironia, la bontà d’animo e quell’ingenuità di fondo che lo contraddistinguevano. La sceneggiatura è stata povera nello sfaccettare la sua personalità, concentrandosi solo sugli aspetti che più risaltavano agli occhi, a discapito persino della verità (è stato Alan a denunciare il furto in casa sua e a portare le impronte di Arnold alla polizia e non viceversa, dandosi una grande, enorme e fatale zappa sui piedi, perché dal quel momento si è scoperta la sua omosessualità).

Ovviamente, avendo letto la biografia, mi aspettavo di vedere scene riportate nel libro o dettagli come la presenza dell’orso Porgy, l’ “adozione” di Bob, il ragazzo ebreo di cui Alan si è preso cura pagandogli gli studi perché immigrato e indigente e il rapporto delicato e affettuoso instauratosi con la madre di Christopher. Ma nulla di ciò è avvenuto.

D’altro canto però, per quanto riguarda la successione temporale, la sceneggiatura mi è piaciuta tantissimo, perché non è stata lineare: ha saputo intrecciare benissimo scene del passato di Alan [quando era un ragazzino isolato, criticato e ingiuriato da insegnanti e compagni, che incontra il sollievo e la felicità quando conosce Christopher Morcom, il suo primo e (credo) indimenticato amore], con la situazione “presente” a Bletchley e il “futuro” inerente la scoperta, da parte della polizia, della sua omosessualità.

Per quanto riguarda invece l’attendibilità storica degli eventi di Bletchley, diciamo che sono stati semplificati fino all’osso e che Alan è stato reso molto più importante di quanto non sia stato realmente, pur avendo ricoperto un ruolo importantissimo all’interno del team di decrittaggio: non è stato solo nel chiedere direttamente a Churchill il finanziamento della macchina, fu tutto il gruppo a farlo, perché per quanti problemi iniziali ci potessero essere stati, il bisogno di materiale aveva unito tutti. Così come la costruzione della macchina non è tutta opera di Alan, il suo è stato un contributo decisivo nel migliorarla, perché la Bomba era già stata sviluppata dai polacchi. Anche in questo caso, insomma, si è dato maggior risalto all’arroganza e all’alienazione di Alan, proprio quando non c’era motivo di farlo. È vero che in un film della durata nemmeno di due ore (113 minuti) non c’era spazio per inserire tutto, ma è anche vero che, secondo me, si potevano escogitare altri modi per42_b rendere chiaro quanto Alan fosse considerato il tipo “strano”, perché lui sapeva collaborare con gli altri, solo che si innervosiva quando questi ultimi non capivano i suoi ragionamenti e di consegenza era visto come lo strambo intellettuale che nel Capanno 8 tutti chiamavano “Prof”.

Detto questo, può sembrare che il film non mi sia piaciuto, ma non è così. Parlo come sempre da una pignola al limite dell’impossibile, che vorrebbe tutta la verità minuto per minuto, così come l’ha letta. Ma cinematograficamente ciò non è possibile, perché bisogna adattare gli eventi, i personaggi e il messaggio generale del film in poco tempo.

L’importanza di questo film sta nel suo mostrare al mondo ciò che hanno fatto un gruppo di persone dalla mentalità razionale e scientifica, per salvare le vite di milioni di persone durante uno dei conflitti più violenti del novecento. I libri di storia non raccontano mai tutto, e soprattutto non raccontano tutta la verità, quella verità che Alan serviva sempre, in ogni suo gesto. E lui più di tutto, che era votato alla sincerità più innocente ed esplicita, è stato celato agli occhi del mondo, che non ha mai conosciuto la sua genialità e l’importanza dei suoi studi.

Al di là dei cambiamenti che ho riscontrato – che sono serviti a far comprendere le dinamiche tra i protagonisti e tutti i giochi di potere all’interno di Bletchley, oltre a dare un piccolo approfondimento sulla figura di Joan che, al di là di tutto, era anch’essa un’eccezione in un mondo in cui le donne non erano considerate capaci di pensare allo stesso livello di un uomo – il film è ben diretto e ben interpretato, la colonna sonora mi commuove ogni volta che l’ascolto e Alan Turing finalmente risorge dalle sue ceneri, si rialza dopo gli anni in cui la storia e il governo britannico lo hanno annientato (non ha nemmeno una tomba!) ed è finalmente libero di essere conosciuto come il genio che è stato e come padre dello strumento che stiamo usando in questo momento io che scrivo e voi che leggete.

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E Benedict Cumberbatch merita tutte le nominations che ha avuto e quelle che spero avrà in futuro, perché ci ha messo l’anima e il cuore nel ridare vita ad Alan.

Andate a vedere assolutamente questo film!


SLA e Ice Bucket Challenge

Da un po’ di tempo imperversa in internet la Ice Bucket Challenge, che vede attori, cantanti, sportivi e personaggi dello spettacolo in generale, sfidarsi a gettarsi addosso un secchio pieno di acqua ghiacciata. La sfida è nata per attirare l’attenzione del pubblico sulla donazione alla ricerca per la cura della SLA (sclerosi laterale amiotrofica) che, seguendo Wikipedia:

è una malattia neurodegenerativa progressiva del motoneurone, che colpisce selettivamente i motoneuroni, sia centrali, sia periferici. […]
Le conseguenze di questa malattia sono la perdita progressiva e irreversibile della normale capacità di deglutizione (disfagia), dell’articolazione della parola (disartria) e del controllo dei muscoli scheletrici, con una paralisi che può avere un’estensione variabile, fino alla compromissione dei muscoli respiratori, alla necessità di ventilazione assistita e quindi alla morte, in genere entro pochi anni. L’unico modo per prolungare la sopravvivenza del malato è la tracheotomia con la respirazione artificiale: pur in condizione di disabilità estrema, il paziente, se tenuto al riparo da infezioni e malattie respiratorie, può vivere anche 20 anni o più.

In parole povere, la SLA paralizza gradualmente il corpo di chi ne è affetto, proprio come la più famosa sclerosi multipla. È una malattia che porta alla morte e prima ancora ad una vita di sofferenze (una delle vittime più famose di questa patologia è lo scienziato Stephen Hawking) ed essendo poco diffusa non è stata ancora trovata una cura.

La Ice Bucket Challenge era nata come una sfida a gettarsi la secchiata d’acqua gelida nel caso si decidese di non donare alla ricerca, ma col tempo si è diffusa talmente tanto da diventare compagna delle donazioni e, ultimamente, solo un’allegra sfida estiva. Ho letto al riguardo lamentele e polemiche sul fatto che un’iniziativa nata per sensibilizzare la gente su una malattia rara e davvero brutta, sia diventato solo un giohetto divertente che fa moda, e credo che trovandomi di umore particolamrmente cinico e tetro, sarei stata d’accordo anche io, perché è un risvolto degli eventi più superficiale e agli antipodi dal suo vero scopo.

Tuttavia, devo spezzare una lancia a favore di questo trend, perché noi spettatori ci siamo divertiti a vedere i nostri vip che congelavano e si sfidavano tra loro, ma nel frattempo molti di noi si saranno informati sulla SLA e qualcuno avrà dato il suo contributo. La piega più allegra e divertente è in sintonia con l’estate, che è di norma la stagione del divertimento e della “superficialità” (intesa come desiderio di lasciarsi i problemi alle spalle), ma il collegamento della sfida alla ricerca per una cura ad una malattia spietata, è riuscito ugualmente a dare un risvolto serio e profondo al trend estivo. Personalmente, credo che a volte un po’ di leggerezza aiuti a sensibilizzare le persone, allo stesso modo (se non meglio) di quanto possa fare uno spot serio e impegnato.

E detto questo, per concludere in bellezza, ecco le due sfide che ho amato di più, perché sono state tra le più divertenti e originali, e perché vedono protagonisti i miei amati british che, in due modi che rispecchiano perfettamente i rispettivi caratteri, hanno partecipato alla challenge nonostante la mancanza del secchio (il primo) e il ritardo (il secondo).


-oOo-

CumberShark Attack xD

Non ci sono parole per definire la bellezza di questo video: non smetto di ridere da ore!
Adoro quest’uomo.

Sembrava una calma domenica di Dicembre, invece…

[La calma che precede la tempesta.]

… è uscito il nuovo trailer della terza stagione di Sherlock.
E quei geniacci malefici della BBC, non paghi di aver allertato gli animi in attesa con questo trailer, hanno ben pensato di renderlo INTERATTIVO, inserendovi svariate clip e piccole interviste e regalandoci anche tanta frustrazione per non essere riusciti a sbloccare delle immagini. Inutile dire che sto scrivendo con calma ma che dentro di me sto letterlamente fangirleggiando dalla gioia, com’è inutile dire che TUMBLR è letteralmente impazzito!


Diario di una fangirl anonima (o quasi)

Il mio livello di fangirlismo sta toccando vette abissali (?).
Sto leggendo le storie scritte per il contest RACCONTI SOTTO LA LUNA, e per concentrarmi meglio nella lettura, mi faccio cullare dalla musica dei Sigur Ros, che sto ascoltando esclusivamente perché sono parte della playlist delle canzoni preferite di Benedict.
Sì, sono da ricovero.


The Hobbit: The Desolation of Smaug – Nuovo trailer (e fangirleggio selvaggio)

In questo momento, il mio fangirleggio sta toccando vette inimmaginabili. Questo trailer racchiude tante delle cose che più adoro al mondo e non so nemmeno da che parte iniziare. Nonostante Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato, si sia rivelato in parte deludente (anche se tutto sommato, a me il film piace), nonostante l’inserimento di un personaggio inesistente come Tauriel, nonostante quindi, le perplessità sulle scelte di Jackson che fanno pensare che questa trilogia sia più che altro un prodotto commerciale, non vedo l’ora che arrivi quel 12 Dicembre 2013 per potermi accomodare in una sala del cinema e godermi questo secondo capitolo sul grande schermo.

In qualsiasi modo lo si tratti, Tolkien è Tolkien, e l’immensità di ciò che ha scritto e che ci ha lasciato non si discute. Senza contare che film fantasy fatti bene non ce ne sono a parte proprio i film di Jackson, per cui anche se fose stata la versione cinematografica della saga di Landover (che proprio non riesco a farmi piacere), sarei corsa al cinema fremente, perché è fantasy.

Detto questo, trattandosi de Lo Hobbit, non vedo l’ora di vedere questa parte del libro, perché è una di quelle che mi è piaciuta di più: le parti iniziali sono sempre meno adrenaliniche, mentre questa mostra l’incontro/scontro con gli elfi e la durezza di Tranduil che rifiuta ancora una volta di dare aiuto a Thorin, mostrando quanto l’inimicizia tra nani ed elfi sia profondamente radicata e senza speranza di essere eliminata (a parte il caso di Legolas e Gimli, un centinaio [?] di anni dopo). E inimiciza a parte, gli elfi… gli elfi sono sempre uno spettacolo da vedere. Già nel trailer si nota come Jackson si sia soffermato molto di più sul combattimento acrobatico ed elegante elfico: nel Signore degli Anelli alla fine dei conti, le acrobazie erano solo sulle spalle di Legolas, mentre qui c’è un intero esercito che può darci prova delle proprie abilità e della propria destrezza, quasi allo stesso modo in cui George Lucas ha mostrato la bellezza del combattimento Jedi nella trilogia prequel di Star Wars. A parte quelle sopracciglia profondamente nere sotto chiome profondamente bionde, che proprio non riesco a tollerare, gli elfi sono una delizia da guardare e a metà trailer già ero in brodo di giuggiole all’idea di vederli in azione all’interno del film!

Oltre agli elfi, in questo film incontriamo gli umani di Dale che a loro volta osteggiano Thorin, aumentando la tensione e il desiderio di arrivare fino in fondo, soprattutto una volta giunti ad un passo dalla montagna. Si vede anche l’orso di Beor, altro personaggio che ho adorato e che non vedo l’ora di vedere…
Ed è a questo punto che giungiamo al meglio: Gandalf in ogni sua apparizione sarà sempre il mio preferito e Bilbo ora ai miei occhi ha una profondità maggiore, perché se Martin Freeman mi aveva già convinto con il primo capitolo, dopo averlo visto all’opera nei panni di John Watson, ora lo adoro più che mai e so quanto sarà un Bilbo Baggins meraviglioso (cosa di cui dà ampiamente prova già nel trailer, soprattutto nel modo in cui affronta un sospettoso Gandalf ed elogia l’ancor più sospettoso Smaug).
Ecco, l’ho nominato.
Smaug.
Il personaggio che più attendevo di vedere.
Adoro i draghi, anche più degli elfi. La mia adorazione verso queste splendide, magiche, orgogliose e terribili creature arriva alle stesse vette della mia inesauribile adorazione per i felini. Ovunque ci sia un drago, fangirleggio senza sosta, l’unica “action figure” (definizione quanto mai impropria) che ho, è proprio quella di un drago, chino sulle sue adorate monete d’oro. Persino quando si tratta di una creatura profondamente malvagia, io parteggio sempre e comunque per il drago. Sono incondizionatamente e irrevocabilmente innamorata di loro.
Infatti la fine del primo film, in cui di colpo si apre l’occhio splendido di Smaug, mi ha coperto di brividi, senza contare il primo trailer del secondo capitolo, in cui alla vista del suo volto e del suo respiro, sono saltata sulla sedia dalla gioia.
E adesso, sapendo oltretutto CHI dà la voce al drago, e dopo aver visto COME gli ha dato quella sua voce già splendida, ma che nell’impersonazione di Smaug è diventata ancora più bassa e cavernosa, i miei brividi hanno toccato vette che sfioravano lo svenimento da troppa eccitazione!
Ma l’avete sentito????!!!
È letteralmente DIVINO!!!
Oh Cielo, non vedo l’ora, non vedo l’ora!!! Quella voce mi ucciderà, lo so, soprattutto in questo film, perché non è solo la voce, stiamo parlando di SMAUG! Il drago che ha catturato Erebor, il drago che da anni vive indisturbato sotto la montagna perché tutti lo temono, il drago capostipite di tutti i draghi malvagi del fantasy. Smaug è IL DRAGO, e la sua è LA VOCE; non poteva esserci un binomio più perfetto di così!
(senza contare che quella voce, darà vita anche a Sauron, o meglio il Negromante, così come si presenta in questo periodo, in cui il suo occhio non si è ancora presentato nel suo pieno ed oscuro potere)

Detto questo, io ora come faccio ad attendere fino a Dicembre???? COME????
*me si prepara a riguardare il trailer senza sosta*


Third Star – facciamoci anche questo pianto!

B0058ILL2K.01.LZZZZZZZCi sono film che ami sin dalla prima scena, altri che apprezzi con lo svolgersi della trama, altri che invece sono deludenti… e poi ci sono i film con finale a sopresa. E non nel senso classico di una scena che non avresti mai pensato di vedere, ma di film che nel loro ultimo fotogramma, gettano su di te una valanga di emozioni e di sensazioni che in tutto il resto del film non avevi provato.
Così è stato Third Star. Sin dai primi minuti di girato, il film avverte lo spettatore che si tratterà di una storia drammatica, dato che è lo stesso protagonista a dire : “Oggi compio 29 anni, ma non arriverò a compierne 30”

James, malato terminale, vuole vivere fino in fondo il poco tempo che gli rimane. Decide così di partire per la costa est del Galles insieme a Miles, Davy e Bill, i suoi migliori amici. Ognuno di loro avrà quindi la possibilità di riflettere sulla propria esistenza. Miles deve accettare l’idea che l’amico stia morendo, Davy sente la necessità di essere vicino ai propri compagni nel momento del bisogno, mentre per Bill il viaggio diventa l’occasione per evadere da una quotidianità sempre più opprimente…

La trama è molto minimalista, ma in effetti è questo ciò che accade: è un viaggio compiuto da quattro amici, quattro anime talmente affiatate da riuscire a convivere col fatto che una di esse sta morendo, scherzandoci su. O almeno questo è ciò che sembra nella prima parte del film, in cui i quattro amici si danno a scherzi e baruffe degni degli adolescenti e ne ridono con semplicità, quasi come se volessero ritrovare la leggerezza degli anni precedenti.
Il tema del viaggio catartico, in cui il malato trova la forza di affrontare la sua morte imminente, non è una novità: avevo già affrontato una situazione simile in Sly, di Banana Yoshimoto, ma sapevo che questo genere di trama mi avrebbe lasciato qualcosa su cui riflettere. E infatti, mi sono ritrovata a pensare alla bellezza contenuta nella tragedia: a questo viaggio compiuto dagli amici di James, che pur di dargli questa gioia, costruiscono per lui un cart su cui potersi muovere per raggiungere Barafundle Bay, il suo luogo del cuore. Alla bellezza di un legame così profondo da trovare la forza di ridere e scherzare anche davanti al fatto che uno dei tuoi migliori amici sta per lasciarti. A quel legame così forte da non essere spezzato nemmeno dopo rivelazioni dure e parole amare, e che è talmente profondo, da portare James a chiedere ai suoi amici l’ultimo grande doloroso favore che loro avessero mai potuto concedergli.
Avevo intuito quasi subito quale fosse lo scopo del viaggio, ma quando viene esposto senza dubbi, ho pensato alla forza che ha dovuto avere il protagonista per chiedere quel favore e a quella ancora più grande dei suoi amici, nell’affrontare una richiesta simile.
E quando tutto si compie, sono rimasta oppressa e intristita e credevo che quello sarebbe stato il mio umore fino alla fine del film. Invece, c’è stato quel momento, quel singolo momento in cui la voce calda di Benedict ha detto l’ultima frase, quel momento finale che è stato devastante, che mi ha lasciato in lacrime e mi ha fatto continuare a piangere per ore. Ho letto recensioni negative di questo film e commenti più che entusiasti degli spettatori: sicuramente la trama non ha niente di originale, ma qualcuno una volta ha detto che l’originalità non sta nell’inventare nuove storie, quanto a raccontarne di vecchie in modo del tutto nuovo. In questo caso è bastato il fatto che sia un racconto di vita, un racconto realistico sulla sofferenza, sulla malattia e sul dolore che si prova sapendo che la tua vita sta per finire, e dello strazio che senti sapendo che chi ami sta per andarsene. Ma è anche un film sull’amicizia, sui legami profondi, su ciò che di bello la vita ti dà anche se poi ti costringe a dover dire addio a tutto ciò prima del tempo.
È assolutamente straziante sentire James dire “Non voglio morire, non mi sono mai sentito così vivo…”, è una sofferenza vedere Miles che ripercorre con l’amico, il dolore di aver perso suo padre per il cancro, è terribilmente doloroso rendersi conto della veridicità di ciò che James dice all’inizio del film: “La malattia è mia, ma la tragedia è tutta loro”.
La vita è davvero crudele, eppure a volte gli uomini riescono a trasformare la tragedia in un’occasione di intimo confronto, di comunione d’anime totale, di dolore condiviso e purificato dall’accettazione.
Questi tipi di film mi distruggono, ma la devastazione emotiva mi aiuta a far sì che questa storia resti dentro di me e mi lasci un messaggio, una sensazione, un dolore o un semplice pensiero sulla bellezza, la fugacità e la crudeltà insite nella nostra vita.
Inutile dire che Benedict nel ruolo di James è stato toccante, come sempre.
Ed è inutile dire che io sto ancora piangendo.

“So I raise a morphine toast to you all. Remember that you were loved by me and that you made my life a happy one. And there’s no tragedy in that.”


Vincent Van Gogh, painted with words

BenedictQuando un attore che stai imparando ad amare (per non dire che ti ha totalmente fuminata con la sua bravura), incontra uno degli artisti che più ti è rimasto nel cuore, non può che uscirne qualcosa che amerai senza riserve.
Quando ho letto che Benedict ha interpretato Vincent Van Gogh, ho avuto l’immediato desiderio di vederlo e capire di cosa si trattasse, e ieri sera sono riuscita nell’intento.
L’interpretazione di Benedict è relativa ad un documentario della BBC (che Dio l’abbia semrpe in gloria): Vincent Van Gogh, painted with words, che ricostruisce la vita del pittore attraverso le lettere che ha scritto nell’arco della sua vita a suo fratello Theo. Alla narrazione in terza persona, si alternano parti recitate che fanno rivivere le parole di Vincent e dei suoi familiari, come se fossero stati intervistati ai giorni nostri, e ogni singola parola detta dagli attori, è vera. Ogni singola parola detta da Benedict, è stata scritta da Vincent, ogni singola parola detta da chi interpreta Theo e i coniugi Van Gogh, sono state dette e scritte realmente: questo dà al documentario un realismo e un livello di documentazione storica eccelso e solo per questo è da guardare. Senza contare che Vncent Van Gogh è uno degli artisti più sensibili, più conosciuti, più ammirati ma anche più sfortunati che ci siano mai stati sulla faccia della terra.
Sin da quando lo studiai alle superiori mi sono legata al suo animo tormentato, alla vita irrequieta e alla sua instabilità emotiva, e se aggiungiamo che le sue opere sono così vibranti di vita, di colore, di energia, sono così comunicative, mi si stringe il cuore al pensiero che in vita non sia mai riuscito a godere del favore del pubblico e che non ci sia stato mai qualcuno che gli abbia fatto un complimento o l’abbia fatto sentire “bravo”.
Il documentario non fa che confermare tutto ciò che sentivo dentro di me nei confronti di quest’uomo fragile e l’interpretazione di Benedict, manco a dirlo, è talmente vera e commovente, che come tutti coloro che mi hanno preceduto, sono finita anch’io in lacrime davanti alle sue ultime parole e al suo sguardo pieno di dolore, arreso all’idea di essere un uomo che poteva essere solo definito come un folle e un fallimento, come lui stesso dice:
“I feel a failure that’s it as regards me.
I feel that that’s the fate I’m accepting and which won’t change any more.”
(Sento che il fallimento è tutto ciò che ha a che fare con me.
Sento che è destino che accetti tutto ciò e che non possa cambiare ulteriormente.)
Vincent è stato un uomo che per tutta la vita ha combattuto con il desiderio di essere accettato e apprezzato, di essere amato e di trovare il suo posto nel mondo, e per ogni nuova volta in cui il suo disturbo bipolare, lo portava ad entusiasmarsi per una nuova strada imboccata, c’era sempre la conseguente depressione e il senso di vuoto e solitudine che lo distruggeva, fino a fargli decidere di togliersi da questo mondo, per non essere più un peso per la sua famiglia e per Theo, che l’aveva sempre aiutato quando non riusciva a sbarcare il lunario. Se ancora penso alla vita che ha vissuto, al suo senso di solitudine, a quel desiderio mai avverato di essere apprezzato, mi si stringe il cuore.
Vorrei tanto poterlo abbracciare e fargli vedere quanto sia amato e apprezzato ora.

Il documentario purtroppo non si trova in italiano (tanto per cambiare, mai sia che si faccia qualcosa che promuova la conoscenza nel nostro paese!), ma c’è sul tubo con i sottotitoli in inglese. Se potete, dateci un’occhiata, perché anche se non amate né Benedict, né Vincent, la sua storia vi stringerà il cuore ugualmente.


My crew, is my family, Kirk.

Spettacolare Ben, immenso Ben.
Questa scena vale tutto il film: in quattro minuti scarsi, Benedict è riuscito a catturare tutta la rabbia, la ferocia e la disperazione di Khan.
Quante espressioni si sono avvicendate sul suo viso? Quanti sentimenti diversi è riuscito a trasmettere da quando è iniziata tutta la scena? È impossibile non rabbrividire nel momento in cui dice quel “Khan” con quel tono feroce e quello sguardo minaccioso, ed è impossibile non commovuersi davanti al suo dolore quando parla della sua crew, la sua famiglia, che gli è stata sottratta. Sarà pure troppo bianco e troppo europeo come Khan, ma vi assicuro che nessun antagonista dei film sci-fi mi aveva mai colpito così come ha fatto lui.
Vabbè che sono di parte, ma per fortuna non sono l’unica a pensare che Benedict da solo, ha oscurato l’intero cast di Star Trek Into Darkness.

Is there anything you would not do, for your… family?

[EDIT]

Non so quanto durerà prima che qualche copyright intervenga e faccia rimuovere il video, ma per ora possiamo goderci la scena in HD


Is there…

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-Khan, Star Trek Into Darkness